Una settimana dopo, alla caffetteria, uno studente lanciò in aria un piatto, per scherzo. Mentre il piatto saliva, lo guardavo oscillare; notai che lo stemma rosso di Cornell, sull’orlo del piatto, girava; era addirittura ovvio, almeno per me, che girasse più velocemente dell’oscillazione del piatto.
Non avevo niente da fare, e mi misi a calcolare il movimento di rotazione del piatto. Scoprii, con un’equazione molto complicata, che quando l’angolo era piccolissimo la frequenza di rotazione era due volte quella di oscillazione. Forse, analizzando le forze in gioco o la dinamica del sistema, sarei potuto arrivare alla spiegazione di quel rapporto di uno a due.
Non ricordo più come, riuscii a determinare il moto delle particelle, e come venisse equilibrato dalle accelerazioni per produrre il rapporto uno a due.
Dissi a Hans Bethe che avevo scoperto qualcosa di curioso, grazie ad un piatto volante, e che il rapporto due a uno… Gli feci vedere le accelerazioni. «Molto interessante, Feynman. È importante? A cosa serve?» «Non importa!… Mi diverte.»
Quella reazione non mi scoraggiò, avevo deciso che la fisica mi doveva divertire, e che potevo fare quello che mi piaceva. Continuai a lavorare sulle equazioni delle oscillazioni, passando ai movimenti delle orbite di elettroni nella relatività, all’equazione di Dirac in elettrodinamica, all’elettrodinamica quantistica. Prima ancora di accorgermene – avvenne tutto in poco tempo – stavo giocando, cioè lavorando, con un vecchio affascinante problema che avevo dovuto lasciar perdere quando ero andato a Los Alamos. Un problema simile a quello della mia tesi. Un problema all’antica, meraviglioso.
Giocare così non richiedeva alcuno sforzo. Era come stappare una bottiglia, tutto scorreva senza inciampi. E pensare che stavo per opporre resistenza a tanta facilità! Quello che facevo non era rilevante all’inizio, ma lo divenne. I diagrammi, tutto quel calcolare per cui ottenni il Nobel, scaturivano da quel gingillarmi con il piatto della caffetteria.